Da Micromega del 16 Aprile 2018, di Thomas Fazi e William Mitchell
Stabilire il momento in cui il processo
di integrazione europea si è volto al peggio non è compito facile. È una
difficoltà dovuta al fatto che gli aspetti più nefasti (da una prospettiva
progressista) di questo processo sono il risultato di decisioni apparentemente
non nefaste prese nei decenni precedenti. Per semplicità, comunque, possiamo
fissare il momento di svolta dell’Europa verso il neoliberismo intorno alla
metà degli anni ‘70, quando il regime cosiddetto “keynesiano”, adottato in
occidente dopo la seconda guerra mondiale, entrò in una crisi conclamata.
Non solo, in quegli anni, la pressione
salariale, i costi crescenti e l’aumento della competizione internazionale
avevano causato una riduzione dei profitti, provocando l’ira dei capitalisti; a
un livello più profondo, il regime di pieno impiego minacciava di costituire le
fondamenta per un superamento del capitalismo stesso: una classe lavoratrice
sempre più militante aveva iniziato a fare fronte con i movimenti della
controcultura dei tardi anni ‘60, chiedendo una democratizzazione radicale
dell’economia e della società.
Come l’economista polacco Michał Kalecki
aveva anticipato trent’anni prima, il pieno impiego non era divenuto solamente
una minaccia economica per la classe dominante, ma anche e soprattutto una
minaccia politica. Durante gli anni ‘70 e ‘80 questo fu motivo di grande
preoccupazione per le élites occidentali, come è confermato da svariati
documenti pubblicati all’epoca. Il noto rapporto della Commissione Trilaterale,
La crisi della democrazia, datato 1975, sosteneva – dal punto di vista
dell’establishment – che la situazione richiedeva una risposta multilivello,
mirata non solo a ridurre il potere contrattuale del lavoro, ma anche a
promuovere un «più alto grado di moderazione nella democrazia» e un maggiore
disimpegno (o “non impegno”) politico della società civile rispetto a quanto il
sistema faceva, da raggiungere attraverso la diffusione dell’«apatia».
Il secondo obiettivo – che la
Commissione Trilaterale giudicava come una «precondizione fondamentale» per
raggiungere il primo obiettivo, ossia la transizione a un nuovo ordine
economico (il neoliberismo) – è stato ottenuto, prima di tutto, mediante una
graduale depoliticizzazione della politica economica. Ciò significava svuotare
le sovranità nazionali e sottrarre la politica macroeconomica al controllo democratico-parlamentare
– per esempio, rendendo le banche centrali formalmente indipendenti dai governi
– isolando, in tal modo, la transizione neoliberale dalla contestazione
popolare. “Legandosi le proprie mani”, i governi sono stati in grado di ridurre
i costi politici della transizione neoliberale – che chiaramente comportava
politiche impopolari – addossandone la responsabilità ad accordi, trattati
internazionali e istituzioni multilaterali. Tali politiche furono quindi
presentate come l’inevitabile risultato della nuova e dura realtà della
globalizzazione, piuttosto che come la conseguenza di esplicite scelte
politiche.
In Europa occidentale, questa lotta per
smobilitare i movimenti popolari è stata portata alle sue più estreme
conseguenze. Nel 1971, a seguito del collasso del sistema di cambi fissi di
Bretton Woods, la maggior parte dei Paesi europei continuò a sperimentare varie
forme di accordi valutari. Ciò condusse, infine, alla creazione dello SME
(Sistema monetario europeo), che, in sostanza, ancorava tutte le valute
partecipanti al marco tedesco e, di conseguenza, alle posizioni
“anti-keynesiane” e anti-inflazionistiche della Bundesbank. La strategia ebbe
successo nel promuovere una maggiore coesione del tasso di cambio, ma
l’aggiustamento ricadde interamente sulle spalle dei Paesi con alta inflazione
e valuta più debole. Le loro valute si apprezzarono in termini reali e
trasmisero un impulso disinflazionistico a tutto lo SME. Questa “disinflazione
competitiva” portò alla bassa crescita e alta disoccupazione che caratterizzò
l’economia europea negli anni ‘80, generando deficit strutturali delle partite
correnti in Paesi come Italia e Francia.
La decisione delle nazioni con valuta
più debole di partecipare allo SME condusse le stesse a una perdita di
competitività e di quote di esportazione, mentre beneficiò in modo enorme le
nazioni con valuta forte (in particolare la Germania). Dal punto di vista delle
prime, sembrerebbe trattarsi di una decisione in larga misura autolesionista.
Tuttavia, una simile decisione non può essere compresa ragionando
esclusivamente in termini di interesse nazionale, ma dovrebbe essere vista come
il modo in cui una parte della comunità nazionale è stata in grado di imporre
vincoli a un’altra, come ha notato James Heartfield. Fu, in sostanza, la
reazione al conflitto distributivo degli anni ‘70, quando il capitale europeo
si rivolse allo Stato per disciplinare la classe lavoratrice e le sue
organizzazioni, con l’intento – prima di tutto – di ristabilire la redditività
del capitale attraverso la compressione dei salari. In tal senso, la logica
della “disinflazione competitiva” intrinseca allo SME consentì ai politici
nazionali, adesso “privati” dello strumento della svalutazione competitiva, di
presentare la compressione dei salari e l’austerità fiscale come i soli mezzi
attraverso i quali fosse possibile recuperare la competitività dei rispettivi
Paesi.
Il prisma della depoliticizzazione, una
volontaria e cosciente limitazione delle prerogative sovrane degli Stati da
parte delle stesse élites nazionali, ci permette di comprendere tutte le fasi
successive del processo di integrazione europea. Un passo decisivo in tal senso
fu compiuto nel 1986, con l’Atto unico europeo, che abolì i controlli di
capitale in tutta la CEE. Quei controlli erano stati l’unico strumento che
aveva garantito un minimo di stabilità valutaria in Europa fino a quel momento,
ma ciò fu ignorato dal rapporto Delors del 1989, che funse da modello per il
Trattato di Maastricht del 1992. Questo trattato (formalmente Trattato
dell’Unione europea o TUE) stabilì un calendario ufficiale per la creazione di
un’unione monetaria europea. La maggior parte degli Stati partecipanti
acconsentì ad adottare l’euro come propria valuta ufficiale e a trasferire il
controllo della politica monetaria dalle rispettive banche centrali alla Banca
centrale europea (BCE) entro il 1999. La Germania insistette anche perché
l’unico obiettivo della BCE fosse tenere bassa l’inflazione: il primo, se non
l’unico, criterio della BCE doveva essere assicurare la stabilità dei prezzi.
Inoltre, gli articoli 123-135 della versione aggiornata del Trattato di
Maastricht, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE),
proibirono in modo chiaro alla BCE di finanziare i deficit pubblici.
Col senno di poi, lo scopo appare
chiaro: estendere la logica del mercato alle finanze pubbliche degli Stati,
generando così un effetto disciplinare. Abbiamo visto gli effetti nefasti di
ciò in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2009. Jean-Claude Trichet, ex
presidente della BCE, non ha fatto mistero del fatto che il rifiuto della banca
centrale di sostenere i mercati dei titoli pubblici nella prima fase della
crisi finanziaria era finalizzato a costringere i governi della zona euro a
consolidare i loro bilanci.
Il trattato di Maastricht stabiliva,
inoltre, limiti rigorosi in termini di deficit e debito/PIL per gli Stati
membri, che sono stati successivamente ristretti. Ciò, in sostanza, privò i
Paesi della loro autonomia fiscale senza trasferire questo potere di spesa a
un’autorità superiore. Come ha scritto Heartfield, la costruzione dell’unione
monetaria fu «un processo di depoliticizzazione di un asse centrale
dell’amministrazione economica e fiscale: la moneta». In questo senso,
l’istituzione dell’euro può essere considerato il punto finale della decennale
guerra delle élites europee alla sovranità e alla democrazia. Come scrisse il
grande economista britannico Wynne Godley nel 1992, «il potere di emettere la
propria moneta, di disporre della propria banca centrale, è ciò che, più di
tutto, definisce l’indipendenza nazionale». Pertanto, adottando l’euro, gli
Stati membri hanno effettivamente acquisito lo status di autorità locali o
colonie.
La questione centrale dei trattati
europei
La portata dei trattati europei,
tuttavia, va ben oltre la politica fiscale e monetaria. Su di essi, infatti, si
fonda tutta la struttura giuridica della politica economica dell’Unione europea
(che è rimasta sostanzialmente immutata negli anni). I principi guida dell’UE
sono chiaramente indicati nel capitolo sulla politica economica, in cui si
afferma che l’UE e i suoi Stati membri devono condurre «una politica economica
in conformità al principio di un’economia di mercato aperta e in libera
concorrenza» e ispirata ai seguenti principi: «prezzi stabili, finanze
pubbliche e condizioni monetarie solide e una bilancia dei pagamenti
sostenibile». Altri articoli rilevanti del TFUE includono:
- L’articolo 81, che proibisce ogni
intervento dei governi in materia economica «che possa pregiudicare il
commercio tra Stati membri»;
- L’articolo 121, che conferisce al
Consiglio europeo e alla Commissione europea – entrambi organismi non eletti –
il diritto di «formulare … gli indirizzi di massima delle politiche economiche
degli Stati membri e dell’Unione»;
- L’articolo 126, che regola le misure
disciplinari da adottare in caso di deficit eccessivo;
- L’articolo 151, che stabilisce che la
politica sociale e riguardante il lavoro dell’UE terrà conto della necessità di
«mantenere la competitività dell’economia dell’Unione»;
- L’articolo 107, che vieta gli aiuti di
Stato alle industrie nazionali strategiche.
Di fatto, i trattati hanno incorporato
il neoliberismo nel tessuto stesso dell’Unione Europea, mettendo al bando le
politiche “keynesiane” che erano state comuni nei decenni precedenti. Essi
impediscono la svalutazione della moneta e l’acquisto diretto da parte della
banca centrale del debito pubblico (per quei paesi che hanno adottato l’euro).
Impediscono politiche di gestione della domanda o l’uso strategico degli
appalti pubblici e impongono severe restrizioni alla previdenza sociale e alla
creazione di occupazione attraverso la spesa pubblica. In breve, i trattati
hanno gettato le basi per una reingegnerizzazione su larga scala delle economie
e delle società europee.
Le implicazioni giuridiche di questi
trattati – che sono spesso oscurate da considerazioni sociali ed economiche –
meritano una seria attenzione. Questo perché, nonostante la Francia e l’Olanda
abbiano votato contro una costituzione europea nel 2005, «in definitiva, i
trattati stabiliscono un ordine costituzionale per l’UE». Si tratta di un
ordine costituzionale molto particolare, dovuto alla sua natura sovranazionale
(e quindi intrinsecamente non democratica). Infatti, a differenza delle
costituzioni nazionali, tale ordine non può essere modificato democraticamente
dai cittadini: può soltanto essere emendato all’unanimità nel contesto di un
nuovo accordo internazionale – che, in termini pratici, significa che non è
modificabile. L’unica cosa che i singoli Stati possono fare è ripudiare
l’intera struttura. Come ha affermato il presidente della Commissione europea,
Jean-Claude Juncker, all’inizio del mandato di SYRIZA, «non può esserci alcuna
scelta democratica contro i trattati europei».
Inoltre, a differenza di altre
costituzioni e quadri giuridici, che generalmente sono tesi a definire la
relazione tra le varie istituzioni di uno Stato e i diritti fondamentali dei
cittadini, la “costituzione europea” di fatto «stabilisce una specifica
filosofia economica (o ideologia) sulla quale poi basa – o meglio
“costituzionalizza” – regolamenti dettagliati che vincolano la sua politica
economica». Lo fa anche ancorando norme e regolamenti all’interno delle
costituzioni nazionali, svuotandole progressivamente dall’interno. Ciò
conferisce poteri immensi alla Corte di giustizia europea, che ha l’ultima
parola sulle controversie legali tra governi nazionali e istituzioni UE. Non
sorprende che Alec Stone Sweet, un esperto di diritto internazionale, l’abbia
definito un «colpo di Stato giuridico».
Negli ultimi anni il costituzionalismo
autoritario dell’Unione europea ha assunto contorni ancora più
anti-democratici, contrari persino alla democrazia formale, portando alcuni
osservatori a suggerire che l’UE «potrebbe facilmente diventare un prototipo
[di governance] post-democratica e persino una struttura di governo
pre-dittatoriale contro la sovranità nazionale e le democrazie». Lo abbiamo
visto in Grecia nel 2015, quando la BCE ha tagliato la liquidità di emergenza
alle banche greche per mettere in riga il governo di SYRIZA e costringerlo ad
accettare il terzo memorandum di salvataggio.
Per concludere, qualsiasi convinzione
che la UE possa essere “democratizzata” e riformata in una direzione
progressista è una pia illusione. Questo non solo necessiterebbe che emerga
simultaneamente un impossibile allineamento di movimenti/governi di sinistra a
livello internazionale; a un livello più fondamentale, un sistema creato con
l’obiettivo specifico di limitare la democrazia non può essere democratizzato.
Può essere soltanto rifiutato.
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