Articolo tratto da Linkiesta a questo link qui
Questa sera Report ha parlato del progetto di una valuta
complementare all'euro in corso a Nantes
messo a punto da Massimo Amato e Luca Fantacci della Bocconi.
Ripubblichiamo un'intervista a Fantacci dell'agosto dell'anno scorso dove
spiega la proposta: occorre che l’euro «sia affiancato, non so...
20/08/2011
di Nicolò Cavalli
Luca Fantacci insegna Scenari economici internazionali e
Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale all'Università
Bocconi di Milano. Distinguished Visting Fellow presso il Christ’s College di
Cambridge, il professor Fantacci ha recentemente curato una raccolta di saggi
di Keynes, intitolata Eutopia – Proposte per una moneta internazionale e ha
pubblicato, insieme a Massimo Amato, Fine della Finanza. Da dove viene la crisi
e come si può pensare di uscirne. A lui abbiamo chiesto lumi sulla situazione
finanziaria che sta destando la preoccupazione di risparmiatori, politici,
investitori di tutto il mondo.
Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana
nelle borse?
Niente, e proprio questo è il problema. Non c’è un solo
fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane:
dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa,
tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli Usa era già stato
più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto
crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di
nuovo e sconvolgente.
Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. È proprio questo terremoto in assenza di novità
il dato allarmante, su cui è opportuno riflettere: se oggi, senza motivo, i
mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi,
ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come
niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati
finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere
fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.
Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con
la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed
economia reale. È perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di
borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente
dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai
profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi.
Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due
condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea
sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che
si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente. Secondo, occorre che l’esito
della corsa non sia condizionato dall’andamento delle scommesse. Ma questo è
proprio ciò che non avviene in borsa, dove non si verifica né la prima né la
seconda condizione.
Cosa intende dire?
È molto semplice: gli andamenti dei valori di borsa non
riflettono più alcun tipo di “fondamentale”, non si basano più su alcun
giudizio in merito alla solidità economica o politica dell’emittente. Nei
momenti di massima volatilità, come in questi giorni, siamo tutti d’accordo a
dire che “basta un nulla” per scuotere i mercati e che a tenere il campo sono
le aspettative che si autorealizzano. Tanto è vero che si parla comunemente,
anche sulla stampa finanziaria, di “speculazione” e si dà per scontato che è il
mercato finanziario a dettare l’andamento dell’economia reale, perfino le sorti
di interi paesi, e non viceversa. Ma c’è da chiedersi se, nei periodi cosiddetti
normali, la maggiore calma non dipenda unicamente da una maggiore unanimità
delle aspettative, da una maggiore tenuta delle convenzioni, da una maggiore
stabilità emotiva. In finanza come in amore, rischiamo di essere in balia delle
emozioni, attrattive o repulsive che siano: e quello che, fino a ieri, era
visto come un investitore benefico, oggi è chiamato un avido speculatore, con
la stessa volubile inconsistenza che fa apparire l’amante della sera prima come
un’opportunista spregevole.
Il che non sembra molto rassicurante per le sorti del nostro
Paese, finito anch’esso nel mirino degli “speculatori”.
Ecco, ciò che sta accadendo con i titoli del debito pubblico
italiano è un buon esempio del carattere autoreferenziale dei mercati. I buoni
del tesoro possono anche essere visti come un investimento nell’azienda-Italia.
Ma, a dispetto di quest’orribile espressione, gli stati nazionali, a differenza
delle aziende, non sono fatti per fare profitti e per remunerare i detentori
dei titoli, non presentano un bilancio consuntivo, e non esiste alcun criterio
certo sulla base del quale possano essere giudicati redditizi o anche
semplicemente solvibili. Eppure, tutto ruota attorno a quel punto: la caduta
del prezzo dei titoli di stato e il corrispettivo incremento del loro
rendimento, e dunque l’ampliarsi del differenziale rispetto al rendimento degli
omologhi tedeschi, i timori di un’ulteriore recessione, le preoccupazioni per
la disintegrazione dell’euro, il crollo delle borse… tutto è stato scatenato
dal timore di un possibile default dell’Italia.
Si tratta di un rischio concreto?
Questo è appunto il problema. Per poter rispondere, e magari
assegnare un grado di probabilità all’evento, come si pretende di fare sul
mercato, bisognerebbe poterne dare una definizione univoca. Ora, che cosa
significhi essere “in default”, o “insolvente”, nel caso di un’impresa è
chiaro: significa non essere in grado di pagare i propri debiti, ossia non
avere attività sufficienti per far fronte alle proprie passività. Ma, sulla base
di questa definizione, tutti gli stati sono insolventi! Nessuno stato è in
grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno
tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la
forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non
sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e
per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e
rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono
rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli.
In che senso, allora, si può parlare oggi di stati a rischio
di insolvenza?
Il termine è utilizzato con un’accezione ben diversa, per
riferirsi all’incapacità di uno stato di rifinanziarsi sul mercato a condizioni
sostenibili. Si dovrebbe parlare, propriamente, non di “solvibilità”, ma di
“sostenibilità” del debito. Ed è ben più problematico. Non soltanto perché il
concetto è più vago, privo di una definizione univoca. Ma soprattutto perché il
fenomeno che esso descrive è fortemente autoreferenziale. Infatti, quanto meno
un debito pubblico appare sostenibile, tanto più costa allo stato indebitarsi;
ma quanto più aumenta il costo del debito, tanto meno risulta sostenibile.
Un circolo vizioso che conduce gli stati sull'orlo del
baratro.
Si tratta di un problema che è al tempo stesso politico ed
economico. Quando uno stato, come l’Italia o la Grecia, accumula un tale debito
nei confronti degli stranieri da dover rendere conto delle proprie decisioni ai
creditori prima ancora che ai cittadini, allora si ha un problema politico: in
che senso possiamo ancora parlare di una democrazia, quando a dettar legge non
è il popolo né il parlamento né il governo, bensì una trojka internazionale
Bce-Ue-Fmi, in rappresentanza degli interessi dei creditori? D’altro canto,
quando la capacità di un debitore di ripagare i propri debiti dipende assai più
dal grado di fiducia dei mercati che dalle proprie prestazioni, comunque le si
voglia misurare, allora il problema è anche economico: in che senso si può
ancora parlare di un investimento, quando il tasso di rendimento non ha alcun
rapporto con alcuna misura, per quanto imprecisa, di produttività, ma dipende
unicamente dal grado di sfiducia dei creditori? Sul piano politico, la
concessione di crediti condizionati, subordinati all’adozione di determinate
misure, come quelli che la Bce oggi concede all’Italia, non può essere letta
che come l’instaurazione di un regime di sovranità limitata nel paese debitore.
Sul piano economico, la concessione di crediti a tassi d’interesse del 16%,
come quelli che oggi il mercato accorda alla Grecia, non ha altro nome che
usura.
È la crisi dell’Europa?
Senza dubbio. Una crisi dovuta alla pretesa di costruire l’unione
politica sull’unificazione monetaria. Ma il problema non consiste nel
ritornello secondo cui “ha prevalso l’economia sulla politica”, piuttosto nel
fatto che si è mancato di vedere il piano politico e il piano economico nella
loro articolazione. L’unificazione economica e monetaria è già, in sé, un atto
politico. Non c’è nessuna legge economica che ne detti la necessità, tanto meno
la forma. Può essere realizzata in modi diversi: il mercato comune non implica
necessariamente la moneta unica, la libera circolazione dei beni non comporta
necessariamente il movimento indiscriminato dei capitali. Come mostra
concretamente il precedente storico dell’Unione Europea dei Pagamenti che,
negli anni ’50, ha assicurato ai paesi europei crescita, stabilità e integrazione
economica, senza bisogno di una moneta unica. Viceversa, l’euro ha accordato un
po’ di stabilità e un po’ di crescita, ma a costo di una crescente divergenza
fra i paesi membri che oggi rischia di compromettere sia la crescita sia la
stabilità.
E che cosa si dovrebbe fare?
Credo che sia opportuna una riforma radicale della
governance dell’Unione Europea, come da più parti auspicato: una revisione del
patto di stabilità, un emendamento dello statuto della Bce, e magari anche la
ricostituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti. Per gestire l’emergenza,
ossia la crisi dei debiti pregressi, sono convinto che non ci sia altro da fare
che consentire alla Bce di agire da prestatore di ultima istanza, acquistando
titoli del debito pubblico dei paesi membri. E naturalmente, è bene che tali
prestiti siano accompagnati da raccomandazioni ai governi che ne beneficiano,
perché adottino politiche di rigore, in modo da arginare l’azzardo morale,
ossia la tentazione del figliol prodigo di tornare a spendere, abusando della
misericordia del padre. Ma sarebbe ben più efficace di qualunque
raccomandazione se gli stati europei non potessero né dovessero continuare a
contrarre nuovi debiti, emettendo titoli sui mercati internazionali.
Sembrerebbe un’utopia…
In verità, proprio questo sarebbe reso possibile se si
mettesse in opera un’istituzione analoga all’Unione Europea dei Pagamenti, che
fungesse da camera di compensazione multilaterale per i debiti e i crediti
contratti tra paesi dell’eurozona. Questo avrebbe un duplice vantaggio. Primo,
consentirebbe di distinguere il debito pubblico, che è un affare interno fra i
cittadini e lo stato, e il debito estero, che è un rapporto fra paese creditore
e paese debitore. Secondo, consentirebbe di apprezzare il fatto che il debito
estero beneficia entrambi i paesi, poiché permette al debitore di acquistare
ciò che altrimenti non potrebbe acquistare, ma permette anche al creditore di
vendere ciò che altrimenti non potrebbe vendere. Se il sistema dei crediti fra
paesi s’interrompe, ci rimettono entrambi. Non è un caso se la crisi del debito
nell’Europa meridionale ha comportato anche un arresto della crescita in
Germania, come registrano i dati di questi giorni. Se gli italiani non
comprano, i tedeschi non vendono. Il mercato è aperto, ma nessuno ci va…
Quindi?
Quindi è bene che, a differenza di quanto oggi avviene,
l’onere del debito non venga sopportato, economicamente e simbolicamente,
soltanto dai paesi debitori. Mentre le nuove istituzioni create per gestire la
crisi debitoria europea, come l’Efsf (European Financial Stability Facility)
continuano a far gravare l’onere e l’onta degli squilibri sui paesi debitori,
l’istituzione di una camera di compensazione europea consentirebbe di ripartire
equamente l’onere dell’aggiustamento fra creditori e debitori.
Sta parlando di un’Europa senza euro?
No, la mia proposta non è affatto di abolire l’euro, ma anzi
di difenderlo dai suoi stessi difetti, che oggi rischiano di portarlo alla
dissoluzione. E, per far questo, occorre che sia affiancato, non sostituito,
dalle monete nazionali, e magari anche da monete regionali e locali. Così
l’euro potrebbe essere davvero soltanto un mezzo di scambio, per agevolare il
commercio europeo. Ma, al tempo stesso, le economie locali potrebbero tornare
ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica, senza rinunciare
all’apertura verso l’esterno. Altrimenti continueremo a sacrificare ogni
comunità in nome della Comunità Europea, salvo poi sacrificare la Comunità
Europea in nome del mercato globale.
Ma è una strada percorribile quella che propone?
Dal mio punto di vista, è l’unica via d’uscita plausibile da
una situazione in cui gli stati hanno sempre meno margini di manovra e i
mercati hanno sempre meno contatto con la realtà. A differenza di quattro anni
fa, non possiamo più fare affidamento sull’intervento pubblico. Oggi
l’alternativa a una riforma radicale non è l’intervento dello stato in
economia, ma l’interferenza sempre più cogente e pervasiva del mercato
finanziario nella vita politica. Infatti, stante l’attuale forma delle
istituzioni economiche, l’unica politica concessa è quella che viene giudicata
adeguata dal mercato finanziario, indipendentemente dal suo contenuto. E che
cosa vuole il mercato? Niente di chiaro e definito. Vuole soltanto essere
rassicurato. Le manovre dei nostri governi possono essere opportune e
risolutive, oppure insensate e controproducenti, ma, in ogni caso, se il
mercato le reputa adeguate, ricomincia ad acquistare i nostri titoli, i
rendimenti scendono, e noi siamo salvi. Come l’autocrate totalitario descritto
da Koestler, il mercato ha sempre ragione, purché non si metta mai in dubbio la
sua parola, anche se dovesse dichiarare ad ogni istante una verità nuova.
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